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Sei anni fa usciva nelle sale statunitensi un film che mise d’accordo sia pubblico che critica. Stiamo parlando di Drive, l’ottavo lungometraggio di Nicolas Winding Refn, presentato in concorso al Festival di Cannes, dove si aggiudicò il Prix de la mise en scène.
Il merito del film è quello di aver avvicinato il mainstream al cinema di nicchia, ed aver accolto quindi un pubblico molto vasto.

Drive rielabora il genere noir degli anni ’70, riuscendo a risultare personalissimo ed unico. In questa pellicola risalta costantemente il silenzio e la quiete: il protagonista è un uomo taciturno, molte scene principali sono caratterizzate esclusivamente da sguardi e sorrisi, ed infine anche i movimenti di macchina sono minimi tanto che ogni inquadratura appare statica e immobile. L’immobilità diviene quindi una peculiarità di Drive, presente anche nei personaggi che sembrano depersonalizzati, le cui emozioni sono imprigionate nella loro interiorità e trapelano grazie a semplici sorrisi o sguardi.
Una depersonalizzazione che si ricollega alla tematica dell’alienazione della società moderna; anche per questo l’ambientazione della caotica Los Angeles viene enfatizzata e filtrata attraverso lo sguardo di un autista, proprio come già aveva fatto Taxi Driver.
Tuttavia questa Los Angeles è sempre rappresentata di notte, nel momento in cui non c’è spazio per spensieratezza o sogni, bensì malavita e violenza.

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L’immobilità di Drive ha un secondo scopo: mettere in risalto l’azione. Drive diviene così una pellicola raccontata come un binomio di silenzio e violenza, in cui ad una lunga sequenza di calma si contrappone un montaggio frenetico, una sparatoria ed una fuga in auto.

La violenza diviene un mezzo espressivo dei protagonisti, abituati a tenersi dentro ogni impulso ed emozione, e viene enfatizzata in maniera estetica e assolutamente realistica. Se dapprima viene risaltata attraverso il contrasto con la normalità, successivamente essa diviene una parte integrante della quotidianità dei protagonisti.

Se il binomio silenzio-violenza contraddistingue la pellicola, anche il protagonista è caratterizzato da un doppio volto. Il pilota, di cui non sappiamo nemmeno il nome, divide la sua vita fra il lavoro di stuntman e quello di autista per i rapinatori di banche, così come divide i suoi comportamenti fra la spietatezza e la dolcezza nei confronti di Irene. Il pilota si presenta come un personaggio unico nel suo genere, un anti-eroe prigioniero della metropoli e della notte in cui le emozioni sono minimizzate.

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Il cinema di Refn si riconferma schietto e coinciso in fase di sceneggiatura, che si presenta molto essenziale a differenza di un forte impatto visivo molto ricco, creato da suoni, montaggio e fotografia. Un montaggio fluido, caratterizzato da rilenti e al contempo brusche e frenetiche scene di violenza, accompagna una regia maestosa, che alterna piani-sequenza, slow motion e primi piani in maniera magistrale.
Ma è l’utilizzo del colore che mette in risalto la minuziosa ricerca stilistica che contraddistingue la pellicola. Predominano tenue tonalità di giallo e di verde scuro: il primo è utilizzato per enfatizzare una situazione positiva e armoniosa, il secondo per creare distaccamento e pericolo. Dividendo l’inquadratura in quadranti è importante notare come ogni quadrante funzioni da storia a sé stante e come questa tecnica sia utilizzata in maniera coerente in tutto il film. Insomma, una ricerca simbolica molto peculiare che si sposa perfettamente con l’estetica notturna del film che ricorda molto la street photography.

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Non rimane che aggiungere in questo concerto di perfezione le performance di Ryan Gosling e Carey Mulligan, il primo caratterizzato da un’espressività minima dettata soltanto da sguardi e sorrisi accennati, la seconda molto drammatica e realistica.

Drive ha acquisito importanza con gli anni ed è stato rilanciato dal recente successo di The Neon Demon di Refn e dalla fama di Ryan Gosling.
Un film d’autore consigliatissimo che farà parlare ancora molto di sé.

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Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti: qualunque cosa accada in quei cinque minuti sono con te, ma ti avverto, qualunque cosa accada un minuto dopo sei da solo.
Io guido e basta.

C'era una volta Hollywood

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Sei anni fa usciva nelle sale statunitensi un film che mise d’accordo sia pubblico che critica. Stiamo parlando di Drive, l’ottavo lungometraggio di Nicolas Winding Refn, presentato in concorso al Festival di Cannes, dove si aggiudicò il Prix de la mise en scène.
Il merito del film è quello di aver avvicinato il mainstream al cinema di nicchia, ed aver accolto quindi un pubblico molto vasto.

Drive rielabora il genere noir degli anni ’70, riuscendo a risultare personalissimo ed unico. In questa pellicola risalta costantemente il silenzio e la quiete: il protagonista è un uomo taciturno, molte scene principali sono caratterizzate esclusivamente da sguardi e sorrisi, ed infine anche i movimenti di macchina sono minimi tanto che ogni inquadratura appare statica e immobile. L’immobilità diviene quindi una peculiarità di Drive, presente anche nei personaggi che sembrano depersonalizzati, le cui emozioni sono imprigionate nella loro interiorità e trapelano…

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